A Good American: la recensione del documentario di Friedrich Moser

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Dopo la fine della Guerra Fredda, il miglior decodificatore degli Stati Uniti inizia a sviluppare, insieme a un piccolo team interno alla National Security Agency e ben nascosto, un programma di sorveglianza che rielabora i big data globali per prevenire il terrorismo. In questo passaggio, non poco traumatico e difficoltoso tra analogico e digitale, che si snoda a cavallo tra gli anni ’90 e il 2000, l’intreccio di interessi di pochi sembra non coincidere perfettamente con il concetto di sicurezza nazionale: ne sarà clamorosa riprova il drammatico attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. A Good American, documentario del regista austriaco Friedrich Moser (che è anche produttore, autore e direttore della fotografia), ci conduce nel viaggio tra i meandri oscuri e ombrosi di quelle stesse premesse che hanno dato vita al Patriot Act prima e al Datagate poi. Fulcro del lungometraggio, la storia e le parole del critto-matematico e decodificatore Bill Binney, che dopo più di trent’anni come direttore tecnico della NSA, diede le dimissioni esattamente un mese dopo il 9/11: il programma di analisi di dati Thin Thread, che aveva ideato e contribuito a realizzare, era stato prima inutilizzato e cancellato, infine snaturato e usato per violare la privacy di milioni di cittadini.

Moser si muove asciutto e rigoroso in un’interpolazione misurata tra immagini di repertorio, interviste ai vari protagonisti della vicenda ed empatico ritratto di Bill, dal suo amore per la matematica, alla carriera lunga tre decenni, fino all’irresistibile senso etico e morale. E l’intento etico del film si percepisce proprio per il rigore delle riprese e dello stile registico, che si concede ben poco in termini di strutturazione narrativa o visiva, per lasciare tutto lo spazio a Bill: il mondo di Binney è riprodotto e catturato nei più piccoli dettagli, la telecamera scende all’altezza della sua carrozzella per centrarne il punto di vista, si lascia solo a volte sorprendere in brevissimi attimi di poetica significanza. Moser ha una ben nutrita esperienza come documentarista di argomenti dalla forte pregnanza socio-politica e qui se ne percepiscono anche i precedenti studi in discipline storiche, per la ricerca costante in A Good American di tracciare un fil rouge che possa condurci dal passato al presente (per tentare di capire anche il futuro), con la rilevanza imprescindibile dei dati e delle testimonianze.

La tematica portata in ballo dal cineasta è forte, imponente, e mai stata forse tanto urgente – nell’epoca globalizzata e digitalizzata nella quale ci troviamo immersi e sommersi –, e sebbene il documentario di Moser risulti a tratti piuttosto ostico nella fruizione, ha il pregio inestimabile di porci di fronte a una questione non più rimandabile, che mescola e sovrappone i temi di democrazia, privacy, sicurezza. Per dirla con le parole del regista, “da quando le nostre agenzie di intelligence hanno spostato l’attenzione delle loro attività di sorveglianza dai nostri nemici militari a noi, i cittadini? Come? E perché?”.

Infine la domanda più importante di tutte, cosa significa essere un buon americano, un vero patriota? La risposta si lega idealmente e materialmente al caso di Edward Snowden (e Oliver Stone è tra l’altro produttore esecutivo di A Good American), che è proprio figlio della perversione di un sistema iniziato all’epoca di Binney: lottare per la democrazia significa (ri)metterla in discussione. Sempre.

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