Berlinale 2017: Viceroy’s House, la recensione del film di Gurinder Chadha

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Uno dei modi per raccontare la Storia é quello di mettere accanto i personaggi del quotidiano ed i grandi protagonisti degli eventi politici. Anche nel  caso di questo Viceroy’s House dove in primo piano c’é la fine dell’imperialismo in India e il raggiungimento dell’indipendenza di una nazione ancora fortemente divisa al suo interno. Se da una parte allora c´é la coppia formata da una ragazza musulmana ed un ragazzo indu, dall’altra c’é Lord Mountbatten che con la sua famiglia ha il compito di regolamentare gli affari politici della nazione nascente. Questa contrapposizione di intenti e di potere é quella su cui si gioca affinché si possano comprendere le dinamiche su cui fanno leva i grandi eventi del passato, ed allo stesso tempo entrare in empatia con i suoi protagonisti.

Questo é l’obbiettivo più evidente della regista Gurinder Chadha che con Viceroy’s House firma sicuramente il suo film più personale e conseguentemente più sentimentale. Le emozioni si trovano soprattutto nel modo in cui decide di trattare i personaggi, restando sempre su una linea moderata con l’intento di giustificarne le azioni ed i sentimenti. Anche quando é evidente la rabbia nei confronti di un passato che ancora pesa sulla sua nazione, prevale un certo buonismo nell’affermare che la storia é fatta dagli uomini e che questi possono commettere degli errori. Questa linea di pensiero rientra nel progetto di fare di un film, oltre che una testimonianza del passato, anche un prodotto commerciale aperto all’apprezzamento di un pubblico ampio. Purtroppo peró con questa scelta ci si trova spesso di fronte non solo alla banalizzazione di quello che é stato, ma soprattutto alla finzione che si racconta.

Seppur infatti bisogna imparare a separare il frutto di una rivisitazione artistica da quello che é storicamente accaduto, é altrettanto giusto evitare di ridurre lo spessore del racconto cosí come é stato fatto in questa occasione. Peccato che non si sia deciso di prendere la strada di aderire ad un cinema di genere come era stato fatto con la commedia che ha reso la regista famosa, Sognando Beckam, piuttosto che inserire a forza finti filmati di repertorio per sottolineare la portata del grande evento.  Le relazioni che in questo background si vengono a creare nelle doppie coppie dei protagonisti, infatti, sarebbero state piú interessanti da sviluppare piuttosto che concentrarsi nell’esasperazione del reportage. Tutto diventa cosí piatto come purtroppo sta accadendo a tutti i prodotti finanziati dalla BBC che non fa altro che proseguire nella sua politica dell’educazione non sempre ripagata.

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