Lazzaro Felice: la recensione del film di Alice Rohrwacher

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Un grande vizio dell’uomo italico di oggi è quello di dimenticare spesso e volentieri le proprie origini, sociali e culturali. Un concetto dato evidentemente per scontato. L’Italia è un paese di “pecorari e contadini” diceva qualcuno e forse, virtualmente parlando, questa visione non è molto lontana dalla verità. Quando certi autori hanno raccontato della campagna e dei ritmi rurali di un mondo ormai perduto, siamo stati spesso catapultati di forza in un universo parallelo di cui si ignorava l’esistenza o che si tendeva a dimenticare. D’altro canto, non possiamo nascondere la vergogna nei confronti degli altri paesi e la fretta che ha avuto la nostra nazione nell’industrializzarsi a tutti i costi creando una spaccatura netta tra i due mondi. A descrivere questo sbalzo in avanti, nella metamorfosi vissuta dai più umili, ci erano riusciti i fratelli Taviani con Padre padroneErmanno Olmi con L’albero degli zoccoli, e ancora prima con un ormai decadente neorealismo che lasciava spazio a quello rosa, Due soldi di speranza di Renato Castellani e l’ancora più grezzo (trovandosi a metà del cambiamento di stile) Riso amaro di Giuseppe De Santis.

Nel cinema italiano contemporaneo sembra che solo adesso stiano emergendo certi nomi di rilievo, anche a livello internazionale, più facilmente vendibili all’estero invece che in patria, e il nuovo film di Alice Rohrwacher non fa eccezione ed è un diretto discendente degli autori prima citati. Non si tratta di una rivisitazione o di un semplice ritorno ad un tipo di racconto “superato e stantio”, piuttosto sembra un ritorno cavalleresco ed eroico al coraggio di fare arte per l’arte, cinema per il cinema. In questo Lazzaro felice segna in maniera ufficiosa e ufficiale l’entrata nell’olimpo della settima arte italiana della regista senza sé e senza ma.

Il film parla di un giovane contadino, buono come lo era il principe il Myskin di Dostoevskij (forse di più), o di un Cristo ormai conscio del proprio messaggio di pace, che vive in una tenuta, l’Inviolata, tenuto all’oscuro di tutto insieme al resto del gruppo dai progressi della società, per colpa di una padrona sfruttatrice  e oscura protettrice del grande inganno che la società dei consumi ha creato. È chiaro fin da subito che la potenza del lavoro della Rohrwacher risiede nella miriade di chiavi di lettura che lo spettatore può ricevere dalla visione, da quella sociale a quella religiosa, ma è allo stesso modo limpida anche la direzione presa dalla regista: rappresentare la battaglia non violenta di Lazzaro, straziante come poche, dunque persa in partenza.

La pellicola sembra essere divisa in due parti: nella prima Lazzaro conosce il figlio della marchesa/schiavista mentre nella seconda – pregna di realismo magico – il giovane compie una sorta di viaggio nel tempo e atterra sulla Terra come il messia atteso da tutti ma che non viene riconosciuto da nessuno. Lazzaro felice è un film perfetto, o quasi, per tutta una serie di ragioni storiche ed artistiche che si fanno messaggio di pura umanità e amore (complice l’interpretazione perfetta del protagonista Adriano Tardiolo, unico nel panorama attuale che ricorda, anche ingenuamente, i modi fanciulleschi e semplici di Chaplin). Alice Rohrwacher scrive e dirige un miracolo in ogni inquadratura, nella luce e nei colori, nella musica che va e si muove come un personaggio indipendente, e nel messaggio rivolto già al futuro di un presente e un passato che non si cambia e che attende una nuova rivoluzione. Nel nome di Dio e nel nome dell’uomo.

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